La donna che tradusse Il giovane Holden

la donna che tradusse Il giovane Holden

“Chissà se i libri cambiano davvero le vite, e figurarsi uno.  Quale libro vi ha cambiato la vita? A lei, già, la vita l’ha cambiata il Giovane Holden, come a molti altri. Solo che a lei l’ha cambiata davvero: non l’ha letto, lo ha tradotto. Che, non fosse stato per Salinger, forse nessuno l’avrebbe tolta dall’ufficio stampa della Società Autostrade, e chissà che altra carriera, che altra vita, che altra città che non questa Roma da cui sta traslocando.”

La donna in questione é Adriana Motti, la donna che tradusse Il giovane Holden di Salinger nel 1961, professionista di grande fama di cui abbiamo scovato un’intervista su Wittgenstein.it.

E’ un articolo che merita di essere letto per varie ragioni: prima di tutto, perché sfata molti cliché legati alla traduzione editoriale; poi perché la donna che tradusse Il giovane Holden era una donna piuttosto decisa, che non aveva paura di esprimersi senza mezzi termini sui temi legati alla traduzione e al mestiere del traduttore. Nel corso dell’intervista ad esempio la traduttrice svela alcune delle difficoltà incontrate nella traduzione del classico americano, a partire dal titolo intraducibile in italiano. L’articolo si inserisce inoltre virtualmente nella polemica originatasi di recente sull’omissione dei nomi dei traduttori nella rubrica domenicale di Alessandro Baricco sul quotidiano “La Repubblica”.

Buona lettura!

50 Shades of Grey: best seller dell’estate o serial killer della letteratura femminile?

50 Shades of Grey

di Angela Di Giorno

Ha venduto 40 milioni di copie in tutto il mondo, è il best seller britannico che ha venduto di più nel minor tempo (5,3 milioni di copie in 4 mesi, superando in questo primato la serie di Harry Potter). Il primo libro è uscito in Italia l’8 giugno (pubblicato da Mondadori e tradotto da Teresa Albanese) ed è diventato il fenomeno editoriale dell’estate, oltre che la più gettonata lettura sotto l’ombrellone, insieme agli altri due della trilogia usciti subito dopo. L’autrice E.L. James (pseudonimo Erika Leonard, londinese di 49 anni) è stata inserita dal Time nella lista dei 100 personaggi più influenti del pianeta!!!

La James ha iniziato a scrivere la storia nel 2009 “per puro divertimento” su un sito di fan fiction, ispirandosi ai protagonisti di Twilight. Poi sono nati i tre libri della trilogia sotto forma di e-book. Il passaparola sul web li ha resi famosi ancor prima della prima pubblicazione cartacea a cura della casa editrice australiana Writer’s Coffee Shop Publishing House. Sarà pure nata per divertimento, ma la storia di Christian Grey e Anastasia Steele ha fatto scalpore e ha reso la James ricca e famosa!!!

Erika Leonard

Perché? Mi sono chiesta un pomeriggio al mare, imbattendomi di continuo in donne assorte nella lettura o impegnate a scambiarsi impressioni su questo discusso caso da “classificone”. Ho spulciato con curiosità le recensioni e i commenti su internet: ho trovato pareri molto contrastanti. Tanti sono i consensi e i fans eccitati all’idea che presto inizieranno le riprese del film. In molti altri casi l’eccessività della storia ha suscitato indignazione, tanto che in Inghilterra qualcuno ha chiesto di bruciarne tutte le copie in circolazione perché molte scene nei libri ricordano le torture e le pratiche del serial killer di Gloucester Fred West (notizia di qualche giorno fa sul The Telegraph) 🙁 Altri invece si sono lasciati impressionare molto poco dalle scene erotiche ed hanno puntato il dito sulla banalità del tema e messo in dubbio il talento dell’autrice. Beppe Severgnini sul Corriere lo ha ribattezzato “50 sfumature di noia” 🙂

Insomma, c’è chi lo ama e chi lo odia. Perché?

Per definire il genere è stato coniato il termine “mummy-porn“. Mi ha fatto venire in mente gli Harmony che mia madre teneva nello scaffale chiuso della libreria. Alla fine mi sono fatta prestare la trilogia da un’amica. Sono a metà del secondo libro, “Cinquanta sfumature di nero”, aspetto di leggere anche il terzo per capire perché.

Riflessioni sulla scrittura di Luis Sepùlveda

di Daniela Corrado

Navigando sul web, mi sono imbattuta in una bellissima intervista allo scrittore cileno Luis Sepùlveda.

Da qui l’idea di condivederla con voi anche qui sul blog.

Il titolo dell’intervista è molto forte: “A cosa serve uno scrittore?”

.Ognuno avrà senz’altro la sua risposta a questa domanda…

Leggendo l’intervista mi sono ricordata di tutte quelle volte in cui ho avvertito schiacciante il peso delle parole nel tradurre.

Ad essere sincera questa cosa mi capita spesso. Mi capita quando mi si chiede di essere fedele ad un originale scritto male, quando le parole sono ambigue e il contesto non riesce a risolvere il dubbio, ma soprattutto mi capita quando devo tradurre i pensieri di un’altra persona (come ad esempio le testimonianze o cose così).

Sia Angela che io collaboriamo spesso con associazioni di volontariato che si occupano di temi inerenti al sociale, e spesso ci è capitato di doverci consultare a lungo su quale fosse la parola più adatta per esprimere una sensazione o un sentimento. Si potrà obiettare che anche quando traduciamo roba di veterinaria o archeologia ci scorniamo spesso su come rendere nella maniera più precisa possibile un determinato concetto. Spesso abbiamo idee diverse, ma poi arriviamo sempre ad una soluzione condivisa.

Ecco, questo non capita quasi mai con le parole che descrivono le emozioni. In quel caso ci attanaglia una sorta di ansia, di preoccupazione e sentiamo il peso delle parole degli altri nella scelta delle nostre.

A voi capita mai?

In questo caso, per rispondere alla domanda “a cosa serve uno scrittore?”, preferisco affidarmi alle parole di chi ha tradotto questa bellissima e intensa intervista a Sepùlveda, che dice:

.

“A volte le parole sono prive di senso, e se mai l’hanno avuto lo hanno perso per strada, ma io continuo a credere nella loro forza per mettere in ordine le cose, i fatti e, una volta in ordine, valutare se vanno bene così o se devono essere cambiati.”

Buona lettura!

L’essenziale è invisibile agli occhi

di Daniela Corrado

“Come i frammenti di un vaso, per lasciarsi riunire e ricomporre

devono susseguirsi nei minimi dettagli,

ma non perciò somigliarsi, così invece di assimilarsi al significato dell’originale,

la traduzione deve amorosamente, e fin nei minimi dettagli,

ricreare nella propria lingua il suo modo di intendere,

per fare apparire così entrambe – come i cocci frammenti di uno stesso vaso –

frammenti di una lingua più grande […]”

Era il 1923 quando Walter Benjamin scrisse queste parole nel saggio Die Aufgabe des Übersetzers decidendo di affrontare la traduzione da un punto di vista filosofico ed extra-linguistico.

In genere, è abbastanza diffusa l’idea di considerare la traduzione come un mero esercizio pratico (forse è per questo che i traduttori automatici spopolano così tanto sul web), senza badare alla profondità teorica che di solito è sottesa a una buona traduzione.

Per Benjamin ogni traduzione avrebbe dovuto rivelare la “lingua della verità”, la lingua pura nascosta dietro ad ogni testo e che fa di una traduzione non una copia dell’originale, ma un testo nuovo; non un nuovo originale, ma un testo che non mette in ombra il precedente svelandone risvolti linguistici nascosti.

Sarò una romantica, ma per me la traduzione è essenzialmente questo: un confine sottile tra una nuova scrittura e una riscrittura.

Sulla scia del post precedente in cui veniva sottolineata l’importanza dello studio per ottenere una traduzione di qualità, a costo di sembrare ripetitiva e pedante, anche in questo affermo orgogliosamente lo stesso principio.

Molto spesso si tende a parlare di ciò che non si sa.

Ecco, diranno alcuni, un buon modo per ottenere una cattiva traduzione, e ovviamente un cattivo traduttore.

Ed ecco perché un buon traduttore tende a specializzarsi in un ambito ben preciso.

D’altra parte come resistere alla curiosità del nuovo? A quella nuova proposta, a quel testo che ti attrae, al cambiamento?

Come rifiutare un nuovo lavoro soltanto perché non rientra nella lista degli expertise?

Secondo me non c’è una regola valida che valga per ogni traduttore. Ognuno fa il suo percorso. Ognuno ha il suo tipo di formazione.

Ciò che conta è avere passione e curiosità per la comprensione, andare a fondo nelle cose e non fermarsi mai all’apparenza, inseguire la perfezione del dettaglio e avere l’umiltà di riconoscere che un collega avrebbe certamente tradotto lo stesso testo in un altro modo e che anche quella traduzione è un’alternativa valida alla nostra e pertanto merita rispetto.

Queste riflessioni sono dovute, in parte, alla decadenza che attanaglia le Facoltà di Lingue Straniere un po’ dappertutto.

Parlando con gli studenti più giovani mi sono accorta della straziante verità: in molti atenei, materie essenziali quali la Letteratura e la Linguistica sono spesso ridotte al ruolo di materie accessorie.

Mi chiedo se davvero la conoscenza di una lingua possa basarsi soltanto sulla capacità di chiacchierare più o meno velocemente su un determinato argomento in una lingua straniera…

In attesa che qualcosa cambi, o che le idee mi si chiariscano, so che mi perdonerete lo sfogo di questo post. 🙂

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