Comunicazione e traduzione: il mondo degli eventi culturali

Cultura no muerde

di Daniela Corrado

Musei, eventi e attività culturali ormai da tempo risentono, al pari di altri settori, della crisi economica globale.

Eppure, nonostante la carenza di fondi e l’assenza di politiche nazionali efficaci nel promuovere la gestione di beni e attività culturali, il settore della cultura, o il turismo culturale, in Italia continua a stupire e attrarre un numero enorme di visitatori ogni anno.

Nel 2012, nel supplemento “Domenica” del Sole 24 Ore, il presidente di Confcultura, Patrizia Asproni, affermava:

Dire che la cultura può produrre ricchezza economica, dunque che va seriamente considerata come una delle chiavi per aprire strade capaci di condurre oltre la crisi, non è un argomento decorativo ma il punto preciso da cui ripartire per generare crescita e occupazione, specie giovanile e di qualità nuova, fondata sulle competenze e su diversificate tipologie professionali. La riprova, se ce ne fosse bisogno, l’abbiamo dalla semplice lettura dei dati…

Ecco che, in quest’ottica, le attività di comunicazione e traduzione, che dovrebbero essere sempre presenti nei principali musei, eventi e siti di interesse archeologico e/o storico-culturale, se pianificate e gestite con competenza, possono rappresentare uno dei fattori chiave per la crescita di pubblico e occupazione, aprendo la dimensione culturale italiana al mondo e viceversa.

Se è vero che in un museo a parlare sono essenzialmente gli oggetti esposti, è anche vero che:

I testi scritti sono una componente comunque presente nella comunicazione museale. Non solo non c’è un museo (o mostra) che ne possa fare a meno, alla pari di quanto avviene in tutti gli altri ambiti delle nostre pratiche sociali e/o individuali. E va anche tenuto conto che la presenza dei testi scritti nei musei e nelle mostre è enormemente aumentata nel corso degli ultimi quaranta, cinquant’anni insieme alla loro varietà. […] I diversi testi scritti presenti in un museo costituiscono –nel loro insieme- una sorta di filo d’Arianna che, collegando tra loro i diversi oggetti e moduli espositivi, contribuiscono in maniera determinante a dichiarare e comunicare il senso globale dell’esposizione.” [1]

Tutto ciò ribadisce l’importanza delle parole e del testo scritto anche all’interno dei musei, luoghi dove i reperti e le opere solitamente parlano un linguaggio “segnico”, anche come supporto alla didattica; perché:

L’apprendimento risiede proprio nell’incremento controllato della competenza linguistica[2].

Per queste ragioni, nei musei e negli eventi culturali, dedicare una parte del budget alle attività di comunicazione e traduzione è sempre una buona idea; che ripaga sia a breve che a lungo termine.

È importante non sprecare risorse operando delle scelte ragionate, inserendo istruzioni e informazioni in altre lingue in funzione del target di riferimento dell’evento. Se, ad esempio, uno dei pubblici di riferimento è il turista russo, non ha senso proporre una traduzione italiano-inglese; perché il turista russo, nella maggior parte dei casi, non ha alcuna conoscenza di queste due lingue.

Così come è importante non affidarsi alla traduzione automatica, se non si vuole incorrere in castronerie inutili che si sarebbero benissimo potute evitare con l’aiuto di un traduttore professionista.

Infatti, per poter comunicare adeguatamente la natura delle attività svolte in un museo, o il senso più intimo e profondo di una mostra, occorre studiare e informarsi sull’argomento oggetto dell’evento e apprendere il linguaggio specialistico adeguato.

Conoscere “linguisticamente” qualcosa, come ho già accennato prima, significa apprendere concetti e poterli potenzialmente trasmettere all’infinito. Shakespeare scriveva che “ciò che chiamiamo rosa con un altro nome profumerebbe lo stesso”, un concetto molto romantico, non c’è che dire, ma per niente adatto alla comunicazione museale o scientifica dove “superficie articolare”, “faccia articolare” e “faccetta articolare” indicano realtà profondamente diverse.

Per raccontare un esempio vissuto in prima persona, prima di lavorare in un museo scientifico, ero solita utilizzare a caso il termine “teschio”; ma, da quell’esperienza, ho capito che il termine più adatto per indicare quel concetto è “cranio”, e che queste due parole non sono affatto intercambiabili.

Perciò non si può comunicare qualcosa se non lo si conosce “linguisticamente” in maniera adeguata e l’uso di termini inappropriati non solo genera una cattiva comunicazione, ma produce anche un difetto nella conoscenza.

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[1] D. Jalla, La comunicazione scritta nei musei: una questione da affrontare, in “La parola scritta nel museo. Lingua, accesso e democrazia”, Atti del convegno Centro Affari e Convegni di Arezzo del 17 ottobre 2008, a cura della Regione Toscana – Direzione Generale Politiche formative, beni e attività culturali.

[2] Cfr. B. Vertecchi, http://lps2.uniroma3.it/com/Vertecchi2007B_lm/sici/bac/bacheca.php (al 12/09/07).

 

 

 

 

Il cervello al buio. Vedere con le lenti del linguaggio: intervista alla Prof. Giovanna Marotta dell’Università di Pisa

Uno dei quadri di Esref Armagan www.armagan.com
Uno dei quadri di Esref Armagan www.armagan.com

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Per la nostra rubrica “Lavorare con le lingue straniere… si può!”, riportiamo qui di seguito un’intervista alla Prof. Giovanna Marotta, Ordinaria di Linguistica presso il Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Pisa.

L’argomento è un’interessante studio presentato all’interno dell’Open Day della Ricerca, tenutosi a Pisa pochi giorni fa. Il tema, in sintesi, riguarda il ruolo della vista nel processo cognitivo di rappresentazione semantica della realtà negli individui non vedenti congeniti, in relazione anche a quello dei vedenti.

Buona lettura!

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Intervista

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1. In riferimento allo studio presentato quest’anno all’interno dell’Open Day della Ricerca di Pisa, dal titolo Il cervello al buio. Vedere con le lenti del linguaggio, un articolo del 3 ottobre scorso, apparso sul sito ansa.it , presentava il lavoro del suo team esordendo con il titoloBrain does not need eyes to see”.  Si tratta di uno dei tanti titoli ad effetto tipici del linguaggio giornalistico, o c’è anche un fondo di verità?

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Risposta GM: La frase ha un senso se intendiamo ‘vedere’ non semplicemente come vedere mediante la stimolazione retinica dei nostri organi di senso visivo, ma come creare una rappresentazione del mondo esterno nella nostra mente, anche grazie al ruolo basilare del linguaggio nella cognizione umana: da questo punto di vista, vedenti e non vedenti non sono dissimili, dal momento che i loro cervelli sfruttano le stesse strutture corticali e funzionano nello stesso modo.

2. Alla luce di quanto detto finora, come è avvenuto lo studio sulla rappresentazione semantica degli oggetti da parte dei non vedenti? Ovvero, come è stato possibile stabilire con precisione come un non vedente vede e rappresenta a se stesso i referenti concreti del mondo reale (ad es. un albero, un tavolo, un semaforo, ecc.)?

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Risposta GM: Abbiamo chiesto ad un gruppo di non vedenti congeniti ed a un gruppo di vedenti con le stesse caratteristiche sociali e sociolinguistiche (quali età, genere, grado di istruzione, luogo di nascita) di elencare le proprietà associate ad una serie di stimoli linguistici, quali animali (ad es., cane, gatto), frutta (mela, banana), veicoli (automobile, aereo) o strumenti (martello, cacciavite).

I dati raccolti sono risultati nel complesso non solo comparabili, ma statisticamente indifferenziati nei due gruppi. Anzi, in molti casi la produzione linguistica dei non vedenti è stata più ricca e dettagliata di quella corrispondente dei vedenti, a conferma che in assenza di input retinico il linguaggio gioca un ruolo fondamentale nella costruzione delle rappresentazioni semantiche.

3. Le stesse similarità emergono anche per la rappresentazione dei concetti astratti o dei colori?

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Risposta GM: Nel caso dei concetti astratti, quali allegria, o tristezza, non abbiamo riscontrato differenze, proprio perché tanto i vedenti quanto i non vedenti ancorano il significato di questi concetti all’espressione linguistica.

Viceversa, nell’uso dei termini di colore si rileva un’interessante divergenza, dal momento che i non vedenti, non potendo avere esperienza diretta del colore, ne conoscono soltanto il significato linguistico. Non a caso, i non vedenti hanno fatto minore ricorso ai colori nell’elenco delle proprietà semantiche associate a parole relative al campo semantico della frutta, in cui il colore è tratto saliente sul piano percettivo visivo.

In altri termini, i non vedenti sanno che la banana è gialla, ma poiché per loro ‘giallo’ è soltanto una parola, e non corrisponde ad un’esperienza percettiva, tendono a non fare riferimento a questa proprietà come significativa, come invece accade per i vedenti. Buona parte dei risultati delle ricerche empiriche svolte dal mio gruppo di ricerca sono già rese disponibili in rete e consultabili gratuitamente all’indirizzo:

 http://sesia.humnet.unipi.it/blind_data.

4. Come si può spiegare l’uso perfetto della prospettiva nei dipinti del pittore turco cieco dalla nascita Esref Armagan?

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Risposta GM: I non vedenti sono perfettamente in grado di disegnare, tanto oggetti che panorami, facendo impiego di colori appropriati e delle giuste dimensioni prospettiche.

Ciò è reso loro possibile dalla capacità cognitiva, che condividono con gli altri esseri umani, di rappresentare oggetti e spazi  a livello mentale sopra-modale, cioè non direttamente ed esclusivamente dipendente da un canale sensoriale unico e specifico, vale a dire la vista.

Nei non vedenti, in particolare, il senso del tatto è in grado di fornire le informazioni necessarie alla creazione della rappresentazione tridimensionale, che da piccola scala, quale quella di un oggetto, per poi estendersi su larga scala, come accade per gli spazi ampi e i paesaggi.

5. In conclusione, quali possono essere le applicazioni possibili per questo tipo di studi?

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Risposta GM: La ricerca sulla cecità può fornire utili indicazioni sul rapporto tra cognizione e percezione, aprendo nuove prospettive anche sul versante applicativo, oltre che teorico.

Sul piano sociale, lo studio linguistico e comportamentale degli individui ciechi congeniti può diventare uno strumento utile per facilitare l’emancipazione socio-economica delle persone non vedenti.

Alcune esigenze che sono emerse dal contatto con queste persone riguardano in primo luogo la gestione degli spazi pubblici; ad esempio, la sonorizzazione degli impianti semaforici o la presenza di segnali sonori negli uffici pubblici potrebbe facilitare la possibilità di muoversi in autonomia e sicurezza.

Per ulteriori informazioni sulla ricerca e sulle possibili ricadute sul piano sia teorico e linguistico che pratico e sociale,  vi rinviamo al volume ‘Parlare senza vedere’, pubblicato dalla casa editrice ETS di Pisa.

Biscuiterie Jeannette: tra letteratura e marketing

Biscuiterie Jeannette

Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, mutai parere. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati madeleine, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della madeleine. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicissitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita…non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della madeleine…

(Marcel Proust, Dalla parte di Swann)

Nell’epoca della globalizzazione, l’artigianato purtroppo se la passa sempre peggio. L’ennesima conferma è nel caso della Biscuiterie Jeannette, una delle più antiche biscotterie del nord della Francia (a Caen, nella regione del Calvados), costretta a dichiarare fallimento lo scorso 18 dicembre dopo ben 164 anni di attività (dal 1850).

Secondo la tradizione, la madeleine, simile ad un plum cake, ha avuto origine nell’Ottocento. Ad inventarla fu la pasticcera (o cuoca) Madeleine Paulmier, impiegata al servizio del nobile polacco Stanisław Leszczyńsk. Dal nome di questa donna, Luigi XV di Francia, genero di Leszczyńsk, decise di trarre anche il nome del dolce.

Dalla commistione di storia, tradizione, leggenda e bontà questo tipico dolce francese è arrivato fino ai nostri giorni.

Nei mesi scorsi i dipendenti della Biscuiterie Jeannette, per non perdere il lavoro, hanno deciso di occupare la fabbrica nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica, rilanciare la produzione e trovare un finanziatore.

Il rilancio passa anche attraverso i moderni strumenti di marketing, come ad esempio la creazione di un nuovo sito internet (biscuiterie-jeannette.com) o i social media (pagina Facebook), ma nessuno di questi strumenti è in grado di competere con la fascinosa descrizione di Proust: una pubblicità eterna.

Rileggendo la citazione qui sopra, non sentite l’impulso di addentare immediatamente uno di questi dolcetti? Dite la verità… 😀

Eppure, la letteratura, come spesso avviene, sembra non essere sufficiente. Allora siamo qui, con questo post, a chiedervi di mettere un “mi piace” sulla pagina di questa storica biscotteria francese, sperando di riuscire a dare eco anche in Italia alla giusta protesta di questi lavoratori.

English oddities: 10 bizzarri modi di dire inglesi sugli animali

modi di dire inglesi sugli animali

L’immaginario inglese non finisce mai di stupire. Di pappagalli e asini avevo già parlato in un post precedente dedicato alla traduzione degli idioms inglesi. Ecco qui di seguito altri 10 bizzarri modi di dire inglesi aventi come protagonisti gli animali.

Rane - Help Traduzioni

1. To juggle frogs: letteralmente il verbo to juggle significa ‘fare il giocoliere’ o in senso figurato ‘destreggiarsi’, quindi l’espressione suonerebbe tipo ‘maneggiare le rane’. È usata in situazioni complicate in cui si sta svolgendo un compito particolarmente difficile e impegnativo. Se immagino la scena direi che sono d’accordo: le rane sono piuttosto viscide!

2. In a pig’s eye: indica incredulità e scetticismo. Dire che qualcosa si verificherà in a pig’s eye equivale a dire che è molto improbabile. L’implicazione si basa sull’idea che il punto di vista di un maiale non può essere molto attendibile…

scimmie - Help Traduzioni3. To have more fun than a barrel of monkeys: significa divertirsi molto, spassarsela. Traducendo letteralmente in italiano corrisponde a ‘divertirsi più di una barilata di scimmie’. In effetti, questa espressione idiomatica rende piuttosto bene l’idea di sballo. 🙂

4. To let the cat out of the bag: letteralmente ‘lasciare uscire il gatto dal sacco’. In italiano l’equivalente è ‘vuotare il sacco’ cioè svelare un segreto, confessare una verità.

5. To smell a rat: significa intuire qualcosa, sospettare. Anche in italiano l’olfatto è il senso che viene metaforicamente usato nell’espressione idiomatica ‘sentire puzza di bruciato’. E fin qui nulla di strano. Ma quello che mi chiedo è: “Che odore ha un ratto?”

6. To have a cow: metafora piuttosto colorita per indicare una forte reazione emotiva, in particolare di rabbia o angoscia. Non so voi, ma io trovo l’idea di partorire una mucca alquanto grottesca.

Goat - Help Traduzioni

7. To play the goat. Se qualcuno vi dice ‘Stop playing the goat!’ non vi sta chiedendo di smettere di belare o ruminare, ma solo di ricomporvi, fare le persone serie e smettere di fare i buffoni! A pensarci bene le caprette a volte possono essere sfrontate e un po’ irritanti come chi scherza sempre e troppo… 

8. To eat like a horse: mangiare tanto. In italiano diremmo ‘mangiare come un bue’ o ‘mangiare come un maiale’. E qui c’è poco da dire, è lotta aperta tra immaginari diversi. Ora, dal mio punto di vista, che il maiale e il bue mangino tanto è evidente, ma il povero cavallo? Difficile però stabilire chi ha scelto gli animali più adeguati per esprimere il concetto.

9. To be blind as a bat: corrisponde all’italiano ‘essere cieco come una talpa’. In quanto a cecità, tra pipistrello e talpa siamo lì. Anche in questo caso, come sopra, è solo questione di gusti.

its-raining-cats-and-dogs - help Traduzioni10. It’s raining cats and dogs: ossia ‘piove a catinelle’. Tra i modi di dire inglesi questo l’ho sempre trovato esilarante. Vi immaginate scrosci di cani e gatti?

L’origine dell’espressione non è certa. Potrebbe avere radici nella mitologia norrena e nella simbologia animale che collegava spesso cani e gatti ad elementi o fenomeni atmosferici. Odino, dio delle tempeste, veniva spesso raffigurato insieme a cani e lupi che erano simbolo del vento. Le streghe e relativi gatti neri erano simbolo di burrasche e sventura, soprattutto per i marinai. Alcuni etimologisti, invece, ipotizzano che sia una distorsione linguistica della parola catadupe che in Old English significava ‘cascata’.

Conoscete altri modi di dire inglesi sugli animali? Scriveteli nei commenti!

Autore: Angela Di Giorno

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