Il traduttore è l’ultimo, vero cavaliere errante della letteratura

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di Daniela Corrado

Immobile davanti ad un enorme scaffale pieno di libri, Katie non riusciva a scegliere il regalo più adatto per suo padre. Dalle mensole le copertine colorate sembravano ammicare sussurrandole: “Prendi me, prendi me! Non ti deluderò.” Paralizzata, Katie si chiese quale libro avrebbe dovuto comprare. Troppa scelta, ed ecco -immancabile- il tilt.

Katie non è una mia amica, ma la protagonista del romanzo “How to Be Good” di Nick Hornby. Katie non esiste, se non nelle pagine del libro di Hornby; eppure, lei ed io, abbiamo qualcosa in comune.

Entrando in libreria, penso spesso che i libri non siano mai troppi. Mi capita di avere mille titoli in mente, e mi chiedo quale di essi comprerò. Tuttavia, una volta entrata, sola di fronte agli scaffali, non so più scegliere. In quel momento mi accorgo che Katie ed io siamo diventate una cosa sola: donne paralizzate dall’indecisione.

Non so bene quale criterio guidi la mia scelta, ma alla fine riesco sempre ad uscire dalla libreria con un volume nuovo di zecca ben avvolto in un’elegante bustina di plastica colorata. “Librodipendente”, ripeto fra me e me. Ma il senso di colpa non mi attanaglia affatto.

Questa volta ho acquistato “I ferri del mestiere” di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, un libro che non vedo l’ora di leggere! In esso Lucentini, nei panni del Prof. Marziano, impartisce lezioni di traduzione. Ecco, a proposito della traduzione, un estratto:

Il problema del tradurre è in realtà il problema stesso dello scrivere e il traduttore ne sta al centro, forse ancor più dell’autore. A lui si chiede di essere insieme, e a freddo, Napoleone e il suo più infimo furiere, di avere lo sguardo d’aquila dell’uno e la maniacale pignoleria dell’altro. Gli si chiede di dominare non una lingua, ma tutto ciò che sta dietro una lingua, vale a dire un’intera cultura, un intero mondo, un intero modo di vedere il mondo. E di sapere annettere imperialisticamente questo mondo a un altro del tutto diverso, trasferendo ogni sfumatura, registro, accento, allusione, tonalità entro i nuovi confini. Gli si chiede infine di condurre a termine questa improba e tuttavia appassionata operazione senza farsi notare, senza mai salire sul podio o a cavallo. Gli si chiede di considerare suo massimo trionfo il fatto che il lettore neppure si accorga di lui. […] Il traduttore è l’ultimo, vero cavaliere errante della letteratura.”

Nel leggere l’ultima frase ho ancora la pelle d’oca. Ci viene chiesto di portare le parole degli altri passando inosservati. Ci viene chiesto di essere orgogliosi della nostra identità fantasma. Ci viene chiesto di essere veloci. Ci viene chiesto di capire sempre ciò che non sempre si può capire. Ci viene chiesto di trovare le parole adatte quando talvolta non ce ne sono. Ci viene chiesto d’inventare, ma non troppo. Ci viene chiesto persino di lavorare gratis. E, nonostante tutto, si fa.

Sarà una forma di masochismo? Non credo. Sono convinta che si tratti semplicemente di una sottesa Etica del Traduttore. Se nelle fiabe esistono re senza corone, perché meravigliarsi dei traduttori senz’albo?

“We are such stuff as dreams are made on”, diceva Shakespeare.

2 Comments

  1. Angela

    Sottoscrivo in pieno! 🙂

  2. Anche io! Spesso non ci si rende conto di quanto, in effetti, si esiga da un traduttore, e di quanto il loro lavoro sia complesso e importante.

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